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America alla scoperta degli sciiti
La presenza dei musulmani in Occidente è ormai una realtà e in questi anni numerosi testi hanno approfondito, con metodologie diverse, l’Islam in Europa. Una tematica non del tutto approfondita resta invece la questione della minoranza sciita in Occidente e ora lo studioso statunitense Takim, originario di Zanzibar, colma in parte questa lacuna con il saggio Shi’ism in America dato alle stampe dalla New York University Press.
«Il primo musulmano approdato nel nuovo continente fu Estevan, un interprete marocchino giunto con una spedizione spagnola nel 1527», spiega l’autore che insegna all’Università di Denver (Colorado). «Inizialmente la comunità musulmana era composta per lo più da schiavi africani ma tra questi dubito vi fossero degli sciiti perché a quel tempo lo sciismo non si era ancora diffuso sulle coste orientali del continente nero». Una vera e propria migrazione di musulmani in America inizia soltanto nel 1870. Giungono prevalentemente dalla Grande Siria facente parte dell’Impero ottomano. Sono cristiani ma anche sunniti, alawiti, drusi e sciiti. Lasciano i loro villaggi per cercar fortuna, sfuggire all’occupazione e alla coscrizione obbligatoria imposta dagli ottomani. Non erano granché consapevoli delle differenze tra sunniti e sciiti, pregavano insieme e affrontavano gli stessi problemi.
Oggi è invece maggiore la consapevolezza della divisione tra sunniti e sciiti, sorta per la successione di Maometto all’indomani della sua morte. In Occidente una delle differenze più evidenti tra le due comunità consiste nella leadership: i sunniti costituiscono comitati di esperti in fiqh (giurisprudenza islamica) per interpretare le sacre scritture e trovare soluzioni allo scontro tra fede e modernità, mentre gli sciiti (un paio di milioni in tutto il Nord America) fanno riferimento ai vertici della gerarchia ecclesiastica in Medio Oriente. «La costituzione di un comitato di esperti in fiqh che potrebbe derivare le leggi sacre direttamente dalle fonti oppure attraverso la loro interpretazione non è possibile per gli sciiti americani perché una tale istituzione sarebbe come un’usurpazione dell’autorità religiosa che spetta solo ai teologi», spiega Takim. La tecnologia permette comunque alla leadership sciita di restare in contatto con gli adepti negli Stati Uniti: mandano emissari o aprono uffici di rappresentanza (anche per raccogliere le tasse religiose previste dall’Islam), hanno siti Internet dove pubblicano i decreti religiosi e rispondono ai quesiti per e-mail. Nel contesto americano gli sciiti tentano così di negoziare la loro identità religiosa minoritaria. Ma spesso – conclude Takim – «incontrano le stesse difficoltà che hanno in Medio Oriente: in America i sunniti sono spesso animati da ideologie salafite e wahhabite e di conseguenza considerano gli sciiti alla stregua di eretici e non come musulmani a pieno titolo. Per questo motivo, ma anche a causa dell’emergere di una seconda generazione e dell’islamofobia successiva all’11 settembre, negli Stati Uniti la comunità sciita è sempre più politicizzata: l’obiettivo è uscire dal cono d’ombra e migliorare il proprio status». Come peraltro prescrive la tradizione sciita.
Liyakat Nathani Takim, «Shi’ism in America», New York University Press, New York e Londra, pagg. 286, $35,00.
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