Il partito comunista iraniano Tudeh

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Ahmadinejad toglie il velo alle iraniane

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La figlia di Istanbul. Recensione del romanzo di Adivar

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Chi c’è sotto il velo? Intervista a Patrizia Finucci Gallo, autrice di “I love Islam”

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Islam prigioniero di false ortodossie. Recensione del libro dell’intellettuale liberale egiziano Tarek Heggy.

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Una jihad chiamata heavy metal

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Un iraniano a Doha

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Perché piantare un albero per Neda nel Giardino dei Giusti a Milano

Piantare un albero per Neda è giusto e doveroso, perché è donna e iraniana. E appartiene a quella metà del cielo che deve lottare, quotidianamente, per vedere riconosciuti alcuni dei propri diritti.Non solo in Iran.

In Italia la conosciamo come Neda Soltani ma il suo nome è Neda Agha Soltan. Studiava filosofia, amava la musica ed è diventata – senza volerlo – il simbolo della lotta per la libertà in Iran. E’ morta lo scorso giugno, a 26 anni, uccisa da un cecchino durante le proteste successive alle contestate elezioni presidenziali. Non indossava jeans e maglietta: rispettava il codice di abbigliamento femminile in vigore in Iran da oltre trent’anni: aveva il soprabito e il foulard le copriva i capelli.

Oggi sarebbe dovuto intervenire anche Caspian Makan, il fidanzato o sedicente tale. Ad intervistarlo per primo, in Turchia dov’era scappato, era stato il giornalista anglo-greco Iason Athanasiadis che nei giorni scorsi ha però pubblicato un articolo sul Global Post in cui afferma che Caspian Makan non era il fidanzato di Neda al momento della sua morte e avrebbe sfruttato a proprio favore l’attenzione mediatica. Non so cosa ci sia di vero in tutto questo ma credo sia opportuno affinare il nostro spirito critico e non credere a tutto quanto ci viene detto.

Sull’altopiano iranico gli integralismi ci sono sempre stati, purtroppo. Il poeta Hafez non visse mai a corte ma ebbe la protezione di diversi principi: dapprima il governatore del Fars, vassallo dei Mongoli, poi dei Mozaffaridi: il primo si rivelò un principe duro e rigido tant’è che ordinò la chiusura delle taverne, suscitando la disperazione dei buontemponi. Suo figlio, Shah Shoja (m. 1383) fece invece riaprire le taverne ma Hafez non ci andava comunque d’accordo. A questo sovrano ne successe un altro, deposto nel 1387. Nei suoi versi il poeta persiano Hafez sottolinea appunto i cicli della storia: le taverne (simbolo di dissolutezza e pure di libertà) chiudono e poi riaprono, gli integralisti vengono e poi se ne vanno, bisogna soltanto avere pazienza. E infatti il poeta Hafez scrisse:

Se solo le porte delle taverne potessero essere nuovamente aperte, se solo i nodi delle misure repressive potesero essere sciolti! Sii paziente, per volere di dio riapriranno, riapriranno grazie alla purezza dei bevitori mattutini. Stanno chiudendo le porte delle taverne, o dio, non concedere la tua approvazione, perché così apriranno le porte dell’ipocrisia.

Oggi i pericoli all’orizzonte sono molti e credo che questa iniziativa non debba essere contro l’Iran ma piuttosto per l’Iran. Per questo motivo invito il Comitato dei Giusti e il Comune di Milano a piantare il prossimo albero in questo Giardino alla memoria di Abolhassan Sardari, il giusto iraniano riconosciuto come tale dalla Storia ma non ancora dal Museo dell’Olocausto di Gerusalemme per le evidenti tensioni tra Israele e Teheran.

Non dobbiamo perdere la memoria. Nel 538 a.C. il sovrano persiano Ciro il grande emise un editto permettendo agli ebrei di fare ritorno in patria e ricostruire il tempio di Gerusalemme. Durante la Seconda Guerra mondiale a salvare migliaia di ebrei dall’Olocausto fu l’iraniano Sardari. Lavorava all’ambasciata iraniana a Parigi e all’insaputa dei suoi superiori utilizzò i passaporti in bianco trovati in un cassetto per dare la cittadinanza iraniana a migliaia di ebrei europei che poterono così trovare scampo in Iran. E ancora, nel 1941 un migliaio di bambini ebrei polacchi trovarono transitarono per un lungo periodo nel campo profughi di Teheran allestito dagli inglesi. E dall’Iran riusciranno poi ad arrivare in quella terra che ancora si chiamava Palestina.

Neda Agha Soltan è figlia di questa cultura millenaria del rispetto e della tolleranza. La sua storia è legata in modo indissolubile a quella di Ciro il Grande e di Abolhassan Sardari. Ringrazio il Comitato dei Giusti e il suo presidente Gabriele Nissim, ringrazio il sindaco di Milano Letizia Moratti e li invito a dare continuità a questa iniziativa onorando anche la memoria di Sardari. Perché questo Giardino è per i giusti di ogni paese e di ogni tempo.

Inquietudine sciita nel paese dei cedri

Buio in sala. Un fascio di luce illumina un personaggio con un turbante verde e il volto coperto da un velo bianco che sta entrando in scena: è l’Imam Hossein, il nipote del profeta Maometto massacrato dall’esercito omayyade nella piana di Kerbela nel 680 d.C. Un attimo dopo un arciere scocca una freccia e trafigge Abbas, il fratellastro di Hossein. Lo spettatore viene così proiettato negli episodi più famosi dell’epopea sciita.
Qualche scena dopo sarà lo stesso Hossein a morire, mentre sullo schermo appare il suo cavallo bianco macchiato di sangue e circondato da donne in lacrime. Poi, l’esercito nemico appicca il fuoco all’accampamento della famiglia del Profeta. Dal palco sale un fumo nero e, all’improvviso, il silenzio è lacerato dal rumore di un elicottero. Lo schermo ritrae l’immagine di una donna. È Zaynab, la sorella di Hossein: sopravvissuta, passerà alla storia per aver salvato il nipote, garantendo la continuità della linea degli Imam.

Intanto sul palco compaiono i miliziani in mimetica, ricordando così al pubblico l’invasione israeliana del Libano nel 1982. Sullo schermo scorrono le immagini delle colonie ebraiche e i discorsi di Nasrallah, il leader di Hezbollah. «Siamo in una moschea nel sud del Libano, dove tempi e luoghi si sovrappongono nella performance teatrale messa in scena dagli Hezbollah», scrive la studiosa francese Sabrina Mervin che ha curato (e in parte scritto) il saggio Hezbollah. Fatti, luoghi, protagonisti e testimonianze.
Si tratta di un volume indispensabile per allontanarsi dai luoghi comuni su Hezbollah (il Partito di Dio), capire i legami con la leadership iraniana e le evoluzioni dello sciismo libanese: il rito del tatbir, che consiste nel colpirsi la parte alta della testa dopo averla incisa con un taglio in modo da far colare il sangue durante la processione di Ashura, è stato proibito da una fatwa (decreto religioso) del leader supremo iraniano Ali Khamenei ed è stato sostituito da donazioni di sangue organizzate dagli stessi Hezbollah.

Un tema complesso, quella della religione nel paese dei cedri, non solo per la presenza di più confessioni ma anche perché lo sciismo e il Partito di Dio sono fenomeni transnazionali. Proprio per affrontare questa complessità si segnala anche il manuale di Rosita Di Peri, docente presso l’Università di Torino, che traccia una storia politica del Libano contemporaneo dal mandato francese a oggi evidenziando lo stretto legame fra le strutture confessionali, le vicende interne e quelle internazionali.

Al lettore appassionato di Medio Oriente si consiglia infine il reportage di Robert Fisk, inviato del quotidiano inglese «The Independent», utile per approfondire gli eventi degli ultimi sessant’anni. Riproposto in una nuova versione aggiornata, questo libro monumentale – 852 pagine – è di facile lettura grazie alla scrittura scorrevole e coinvolge per le continue descrizioni di fatti vissuti e persone conosciute dall’inviato che vive a Beirut dal 1976 e si conferma testimone della storia.

«Hezbollah. Fatti, luoghi, protagonisti e testimonianze», a cura di Sabrina Mervin, Epoché, Milano, pagg. 336, € 17,50.
Robert Fisk, «Il martirio di una nazione. Il Libano in guerra», Il Saggiatore, Milano, pagg. 852,
€ 35,00.
Rosita Di Peri, «Il Libano contemporaneo», Carocci editore, Roma, pagg. 184, € 15,00.

“La liberazione delle musulmane? Passa attraverso istruzione e cultura

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